Tra panedemia, guerra, inflazione a due cifre e valore del buono pasto fermo da sedici anni è ormai emergenza salari.
Vengono al pettine i nodi denunciati dalla FLP da oltre un decennio: i rinnovi triennali dei contratti, l’inadeguatezza dell’indice IPCA, l’esigenza di salvaguardare il potere di acquisto dei salari in caso di forti aumenti dell’inflazione
Dopo due anni di pandemia che ha messo in ginocchio l’economia e i cui danni sono stati contenuti solo grazie allo smart working dei dipendenti pubblici con le spese a carico dei lavoratori, dopo le speculazioni sui prodotti energetici iniziati ben prima dell’aggressione russa all’Ucraina, dopo la guerra che ha portato al parossismo l’aumento del prezzo di gas ed elettricità, ci dibattiamo oggi in un’emergenza salariale senza precedenti, a meno di risalire agli anni 70 del secolo scorso.
In base ai dati forniti dall’OCSE, l’inflazione nel secondo trimestre del 2022 è cresciuta in Italia del 6,9% mentre i salari orari sono cresciuti solo dell’1%. Se a questo si aggiunge che negli ultimi trent’anni, sempre secondo l’OCSE, l’Italia è l’unico Paese i cui salari sono diminuiti in termini reali (-2,9%) a fronte di crescite nella maggior parte dei paesi industrializzati a due e a tre cifre (esempio Francia +31,1%, Germania +33,7%, ma anche Lituania +276,3%) è chiaro che siamo di fronte a una vera e propria emergenza salariale.
Le carenti dinamiche di crescita salariale in Italia sono figlie dirette dell’accordo del lavoro del 1993 firmato dal governo Ciampi con i sindacati confederali e più in generale di una moderazione salariale che ha tenuto in considerazione esclusivamente gli interessi dei datori di lavoro e non dei lavoratori.
Purtroppo, la ciliegina sulla torta sono stati gli accordi fatti alla vigilia della forte recessione del 2008 tra Confindustria e una parte del sindacato confederale, con la benedizione del Governo di quegli anni, che hanno introdotto novità peggiorative per i lavoratori, cioè la durata triennale (anziché biennale) dei contratti collettivi e l’introduzione, in luogo della vecchia inflazione programmata, dell’indice IPCA, che altro non è se non l’indice dei prezzi al consumo rilevato a livello europeo (sic!) depurato dell’aumento dei prezzi dei beni energetici importati.
Già allora la FLP mise bene in guardia da un sistema che spostava ancora più in avanti il recupero del potere di acquisto dei salari e inoltre non conteggiava una voce da sempre molto, troppo fluttuante dell’inflazione, cioè il prezzo dell’energia importata, che vediamo adesso quali danni sta procurando in termini di aumento dell’inflazione complessiva.
È chiaro come sia necessario rivedere tutta l’impalcatura della contrattazione che, a oggi, vede i contratti rinnovati già dopo la scadenza (quello delle Funzioni Centrali 2019-21 è stato rinnovato a maggio del 2022, quello della Scuola ancora non è stato rinnovato, solo per fare due esempi) e, nel frattempo, l’unico ristoro – se così si può chiamare – è l’indennità di vacanza contrattuale, pari allo 0,3 per cento dei salari dal 1° aprile 2022 al quale si aggiunge un ulteriore 0,2% a partire da luglio. Il tutto a fronte di perdita di potere d’acquisto che ha toccato, come già detto, circa il 6 per cento in un solo trimestre.
Un decennio buono di bassa inflazione, causata anche dalla recessione mondiale, ha nascosto la polvere sotto il tappeto, ma adesso i problemi vengono fuori in modo deflagrante.
È irrimandabile intervenire in modo strutturale ed è quello che la FLP si accinge a fare nei confronti del Governo che sta per insediarsi. A nostro parere vanno subito posti dei correttivi, sia nell’ottica di non creare nuovi “lavoratori poveri”, che in quella di adeguare tutte le voci che danno luogo ad aggravi di spesa per i lavoratori. Se ciò vale per tutti i lavoratori, per quelli pubblici c’è un’aggravante, costituita dal fatto che, grazie al disprezzo dimostrato in special modo dall’ultimo ministro della pubblica amministrazione, nel settore pubblico, centrale per il raggiungimento degli obiettivi del PNRR, siamo sempre meno, più anziani e privati di ogni possibilità di carriera e quindi di miglioramenti salariali consistenti.
In sintesi, le linee di intervento immediate devono essere due:
- Previsione di un adeguamento salariale consistente e automatico al raggiungimento di una determinata soglia di inflazione. Non è la vecchia scala mobile, abrogata nel 1992, ma un diverso strumento che deve permettere ai salari di non impoverirsi quando, come in questo momento, l’inflazione viaggia verso le due cifre;
- L’aumento dei buoni pasto: questa voce, non strettamente salariale, ma che comunque concorre in qualche modo al salario di moltissimi lavoratori, è ferma dal 2006. Riteniamo che sia arrivato il momento di adeguarla all’inflazione che negli ultimi sedici anni è stata tutt’altro che ferma.
È certo che queste due misure non risolveranno da sole tutti gli squilibri salariali che ci hanno visti fanalino di coda in tutto il mondo occidentale nella crescita delle retribuzioni.
Altri e più complessi devono essere gli interventi sulla contrattazione collettiva che vogliamo introdurre attraverso il confronto con il Governo. Riteniamo però che per affrontare con serenità la rivisitazione complessiva della materia vadano prima di tutto messi in sicurezza i salari dei lavoratori e che ciò non sia possibile con gli aumenti fermi per i prossimi anni mentre il costo della vita galoppa.